Di recente, il caso della ragazza pakistana uccisa dal padre, perché troppo moderna e ribelle verso le tradizioni della sua cultura d’origine, ha suscitato enorme scalpore e discussioni nelle quali si coglievano non pochi accenti di intolleranza e di disprezzo. Eppure in Italia l’abolizione del “delitto d’onore”, con tre anni al massimo di pena per l’omicida, è del 1982 e persino la Tv, in quei giorni, ha continuato a ricordare che la violenza contro donne e bambine è presente anche nel nostro paese e, soprattutto, nel segreto delle famiglie. Bambine anche di pochi anni abusate dai padri o dai conviventi delle madri oppure costrette ad assistere a violenze paterne sulle madri o sui figli maggiori, si ritrovano da adolescenti o da adulte in un groviglio di problemi psichici che portano a danni gravissimi della personalità, uso di droga, gesti autodistruttivi e altro ancora… Fatti del genere troppo spesso vengono negati, coperti anzitutto dalle madri per incoscienza o per paura: se si arriva in tribunale diventano complici (per malafede o per cecità) anche i giudici e i loro consulenti, quando tendono a far ricadere sulle vittime la responsabilità di tali accadimenti. Quando poi nelle discussioni si arriva a parlare di infibulazione o di excisione come di forme non meno gravi di violenza sulle bambine, si trova qualche “anima bella” che comincia a dire: “Ma perché impedirlo”, “È la loro cultura”, “Lo fanno da secoli” ecc. ecc. Da noi se ne parla poco, il problema emerge saltuariamente, ma – data l’affluenza in aumento nel nostro paese di donne immigrate – l’informazione è doverosa.
Secondo dati riportati dal “Corriere della Sera” il 1° aprile 2004, l’infibulazione in Italia riguardava a tale data circa 40.000 bambine di origine africana e asiatica, cifra oggi decisamente aumentata. Per questo abbiamo raccolto e riunito in questo testo una serie di notizie, soprattutto da riviste francesi, anche come sostegno, sia pure modesto, alla lotta condotta contro queste pratiche da Berhane Ras-Work, una coraggiosa donna etiope, presidente del Comitato Interafricano, che in circa vent’anni ha creato legami internazionali a Ginevra, sezioni in varie città europee, alcune in Asia e una trentina di comitati nazionali in Africa per sostenere le campagne di sensibilizzazione e aiutare le donne che vogliono opporsi.
Si sa che chi ostacola questa barbarie rischia la morte, come è accaduto in Somaliland il 6 ottobre 2004 ad Annalena Tonelli – missionaria laica che aveva anche aperto un ospedale per curare le persone malate di TBC e di AIDS – e, poco tempo dopo, a una coppia di insegnanti inglesi di religione protestante.
Secondo le stime dell’OMS le mutilazioni sessuali riguardano più di 140 milioni di donne nel mondo. Ogni anno ci sono 2 milioni di nuove vittime, quattro bambine ogni minuto.
È una pratica tipica dell’Africa – in 28 paesi, soprattutto del Corno – ma si è diffusa nella penisola araba, in Indonesia, Malesia, nel sud dello Sri Lanka. Anche se adottata soprattutto tra gli islamici, non è tradizione tipicamente musulmana: esiste in paesi cristiani come Eritrea, Nigeria meridionale, Burkina Faso, Kenia. La praticano i copti in Egitto e in Etiopia. Qualcuno per giustificarsi afferma che si tratti di una norma religiosa, ma in nessuna pagina del Corano o della Bibbia si ritrova una tale prescrizione.
La gravità delle mutilazioni varia a seconda delle regioni. Le più usuali – circa l’85 % dei casi – sono la cosiddetta sunna che consiste nel tagliare solo la parte apicale della clitoride e l’excisione, asportazione parziale o totale della clitoride e delle piccole labbra. L’equivalente maschile di una tale operazione, scrive Yannick Van der Schueren su “femina”(n.18, 2005), sarebbe l’asportazione del glande del pene, ben più pesante di una semplice circoncisione.
L’altro 15% dei casi concerne l’infibulazione o “excisione faraonica”, praticata soprattutto nel Corno d’Africa: oltre il clitoride e le piccole labbra, si asportano le grandi labbra. I monconi che restano vengono cuciti in modo assai primitivo, lasciando un minuscolo orifizio per la fuoriuscita delle urine e del sangue mestruale. L’equivalente maschile sarebbe il taglio del pene e dei testicoli, tale è il danno sul piano della sessualità. Non a caso fino agli anni Cinquanta del secolo scorso in Europa e negli USA ci sono stati medici che hanno praticato interventi simili sotto il pretesto di prevenire la masturbazione e l’isteria!
Quando una donna infibulata si sposa, il marito taglia i fili della sutura la notte delle nozze, oppure i fili si rompono a poco a poco nel corso dei rapporti coniugali a prezzo di indescrivibili dolori. Il parto presenta ulteriori sofferenze e rischi elevati. In certe regioni la donna dopo la nascita del bambino viene di nuovo cucita in attesa di una seconda gravidanza. Spesso però la madre o il figlio muoiono perché la vagina ha perso la sua elasticità e la chiusura artificiale impedisce l’uscita del neonato.
Altro grave problema è che l’operazione viene fatta da praticone che non hanno la minima idea di disinfezione e usano un coltello o una lametta da barba, provocando tetano, setticemia, epatite, AIDS. Spesso l’orifizio è così stretto che il sangue mestruale non esce completamente, causando ulteriori infezioni. Altre conseguenze diffuse sono incontinenza e sterilità.
Berhane Ras-Work in un’intervista ha raccontato che la pressione sociale a favore di queste norme tribali è fortissima. Una donna non excisa non ha alcuna possibilità di integrarsi nella sua comunità. L’ignoranza è tale che moli te donne non sanno che i loro problemi fisici e psichici derivano direttamente dall’excisione, soprattutto se questa è stata fatta su di loro nei primi anni e perfino nelle prime settimane di vita, con una sutura ormai totalmente cicatrizzata e divenuta “naturale”, apribile solo in modo cruento.
Presso le religioni monoteiste (assai meno in quelle animiste!) i genitali, specialmente quelli femminili, sono considerati impuri: di qui la diffusione – nelle società patriarcali – di pratiche mutilanti, sia come iniziazione e passaggio all’età adulta, sia per pregiudizi secondo cui la clitoride sarebbe pericolosa per il pene o velenosa o altro ancora.
In realtà questa pratica sulle donne è un mezzo per controllarne la fedeltà e per essere certi della paternità dei figli. Secondo Ras-Work gli uomini hanno una paura ancestrale del corpo femminile e vogliono dominarlo completamente. La pressione sociale fa sì che le donne che diventano più o meno consapevoli del danno e delle sofferenze loro inflitte, non hanno la possibilità di ribellarsi a una così grave condizione di inferiorità, pena l’esclusione da parte delle anziane e dei capi religiosi.
Tuttavia si sta facendo molto: si lavora non sui diritti, ma sotto il profilo salute, rischi di morte e di malattie, convincendo le mammane a eliminare i loro strumenti, così come ha fatto per anni Annalena Tonelli.
Un chirurgo francese, Pierre Foldès, ha messo a punto una tecnica per ricostruire la clitoride, operazione che pratica gratuitamente da circa vent’anni, prima in Africa, dove è stato più volte minacciato di morte e poi nella clinica “Louis XIV” a St. Germain-en-Laye, presso Parigi. II suo intervento restituisce sensibilità ed elasticità a tutta la zona.
Ha fatto molto discutere due anni fa in Italia la proposta di un ginecologo somalo, Omar Abdulkadir, di sostituire l’excisione con una puntura sulla clitoride, sufficiente a far uscire qualche goccia di sangue: intervento eseguito da un medico in anestesia locale, condizioni igieniche ottimali, con valore simbolico e legale. Ovviamente le associazioni per i diritti femminili sono insorte perché sarebbe un modo subdolo di perpetuare il controllo sui genitali della donna.
Il Comitato Interafricano dal 2003 ha istituito il 6 febbraio come giornata memoria e di lotta sul tema “Tolleranza zero per le mutilazioni genitali femminili”. Grazie alle pressioni internazionali e a quelle delle ONG (Organizzazioni non governative), già 16 paesi africani hanno votato leggi che proibiscono l’excisione, ma il risultato di maggiore importanza è che non è più un tabu, risolto nel segreto dei villaggi e delle comunità. Basterebbe un maggiore impegno a livello dei governi e la pratica potrebbe venire abolita del tutto nel giro di una decina d’anni.
L’articolo è tratto dalla rivista “il quaderno Montessori”, n. 91 dell’autunno 2006.